Una storia che non tutti conoscono ma che tocca da vicino molte famiglie. La pensione di reversibilità non è solo un importo mensile: dietro c’è un mondo di regole, di decisioni giudiziarie e di equilibri tra passato e presente. Quando c’è di mezzo un ex coniuge divorziato, il quadro si complica: assegni periodici, nuovi matrimoni, sentenze che cambiano le carte in tavola. Eppure, in questa apparente confusione, emerge un filo conduttore: la legge che cerca di proteggere chi resta più fragile. Ci sono storie che raccontano meglio di qualsiasi norma quanto questo diritto sia importante, e sentenze che hanno aperto la strada a nuovi equilibri tra vecchi e nuovi coniugi.
Immaginare cosa succede dopo la fine di un matrimonio non è semplice. Un legame si chiude, ma certe connessioni restano, soprattutto quando uno dei due partner vive in condizioni economiche più deboli. E se, dopo il divorzio, la persona con cui si è condivisa una vita viene a mancare?

Qui entra in gioco una questione che pochi conoscono davvero: la possibilità, per l’ex coniuge, di avere una parte della pensione del defunto. Non basta dire “ex” per tagliare ogni legame: le norme italiane prevedono situazioni in cui quella solidarietà economica continua anche dopo la fine ufficiale del matrimonio. E questa possibilità non riguarda solo i soldi: tocca la dignità, il bisogno di continuità e, in certi casi, il riconoscimento di anni di vita condivisa.
Le regole dell’assegno divorzile e il diritto alla pensione di reversibilità
Il diritto alla pensione di reversibilità dell’ex coniuge divorziato nasce dall’articolo 9 della legge 898/1970. La condizione essenziale? Che l’ex coniuge ricevesse un assegno divorzile periodico al momento del decesso. Non basta aver ricevuto un pagamento “una tantum”: serve un aiuto continuativo che segnali una reale dipendenza economica. Anche il momento in cui è stato avviato il rapporto di lavoro che ha generato la pensione conta: deve essere iniziato prima del divorzio.

Non si tratta di tecnicismi. Un assegno ridotto al minimo, quasi simbolico, rischia di far perdere il diritto alla reversibilità: la Cassazione ha più volte sottolineato che solo un sostegno economico effettivo può aprire la strada a questa forma di tutela. Non è raro che il giudice debba analizzare la situazione per capire se davvero esistesse quella solidarietà che la legge vuole proteggere.
Per chiedere la reversibilità, occorre rivolgersi all’INPS, anche tramite patronati. Se non ci sono altri coniugi superstiti, l’iter è piuttosto lineare. Ma quando in scena entra un nuovo coniuge, la questione diventa una partita che si gioca in tribunale: lì si decidono le quote, e ogni caso è unico.
La ripartizione fra ex coniuge e nuovo coniuge: criteri e casi reali
Quando il defunto si è risposato, la pensione di reversibilità viene divisa tra ex coniuge divorziato e coniuge superstite. Non con una divisione aritmetica, ma con una valutazione complessiva che considera la durata dei due matrimoni, le condizioni economiche delle parti e persino i periodi di convivenza prima delle nozze. È un equilibrio sottile, affidato al giudice.
Un caso concreto lo racconta bene: un uomo, dopo 20 anni di matrimonio con la prima moglie, si risposa e vive altri 10 anni con la nuova compagna. Alla sua morte, entrambe chiedono la reversibilità. Il tribunale assegna il 65% alla prima moglie, economicamente più fragile, e il resto alla seconda. Non è un’eccezione: spesso la lunga durata del primo matrimonio pesa più di quella successiva, soprattutto se la persona divorziata vive in difficoltà.
C’è poi il tema del TFR: l’ex coniuge, se il rapporto di lavoro si è concluso dopo il divorzio, può ottenere fino al 40% della liquidazione. Un dettaglio che pochi conoscono, ma che può fare una grande differenza.
Il sistema, per quanto complesso, ha un obiettivo chiaro: evitare che chi è già in difficoltà venga lasciato senza sostegno. È una logica di equilibrio, tra il vecchio e il nuovo, che spesso finisce davanti ai giudici.