Una frase scritta di getto, un post condiviso con leggerezza, una mail inoltrata nel momento sbagliato. Basta questo, a volte, per mettere a rischio un’intera carriera. Quando la libertà di parola si incrocia con il contesto aziendale, il terreno diventa scivoloso. Il diritto alla critica esiste, è protetto dalla legge, ma non è un lasciapassare per dire qualsiasi cosa.
E tra le righe di una sentenza si può leggere molto di più che una semplice decisione legale: si può leggere il delicato equilibrio tra voce personale e reputazione collettiva. La critica del lavoratore non è sempre un gesto innocente.

In un ambiente dove ogni parola può essere letta, inoltrata o diffusa in pochi secondi, parlare di libertà d’espressione sul lavoro significa affrontare una questione più attuale che mai. I confini tra diritto individuale e tutela aziendale non sono scritti con l’evidenziatore. Anzi, spesso si confondono, generando equivoci pericolosi.
Chi lavora ha pieno diritto di esprimere opinioni, anche critiche. Ma è altrettanto vero che l’impresa ha il diritto di difendere la propria immagine, i suoi valori, e soprattutto il legame fiduciario con i collaboratori. Quando uno dei due interessi prevale sull’altro, si crea uno squilibrio. Ed è lì che il giudice interviene.
Parole che pesano: quando la critica diventa un rischio
Il diritto del lavoratore alla critica è riconosciuto e tutelato, ma non può mai essere esercitato con superficialità. Secondo la Corte di Cassazione, per essere legittima, la critica deve rispettare tre parametri chiave: verità, continenza, pertinenza.

Tradotto: i fatti raccontati devono essere veri, l’esposizione rispettosa e il contenuto collegato al contesto lavorativo. Se anche solo uno di questi elementi manca, il rischio è concreto. La critica può essere interpretata come diffamazione, anche se parte da un disagio reale.
Nel 2024, con l’ordinanza n. 33074, la Cassazione ha ritenuto ingiusto il licenziamento di un lavoratore che aveva espresso un giudizio critico in un ambito ristretto e con toni pacati. In quel caso, l’esternazione era rimasta all’interno di un gruppo chiuso e non aveva prodotto danni pubblici.
Diverso il caso dell’ordinanza n. 35922 del 2023, in cui un dipendente aveva pubblicato su Facebook frasi pesanti contro l’azienda e i suoi rappresentanti. Qui la critica aveva varcato la soglia della verità, lasciando spazio a insinuazioni e toni violenti. Il licenziamento è stato giudicato legittimo.
Chi lavora può criticare, ma non può trasformare un’opinione in un attacco personale. Non basta dire “è solo un pensiero personale” per evitare conseguenze. Nel mondo digitale, ogni parola pubblica ha un’eco. E quell’eco può diventare la prova a carico in un procedimento disciplinare.
Critica sì, ma con responsabilità: l’equilibrio necessario
Esprimere il proprio punto di vista è un diritto, ma richiede consapevolezza. In azienda, il legame fiduciario è tutto. Quando viene meno, non sempre c’è spazio per chiarimenti. Basta poco per incrinarlo: una frase sbagliata, un’accusa non provata, un linguaggio fuori misura.
La libertà di espressione non va negata, ma accompagnata da responsabilità. Il lavoratore ha il dovere di comunicare in modo costruttivo, anche se è in disaccordo. Se la critica è fondata e rispettosa, può diventare occasione di crescita. Ma se scivola nell’offesa, rischia di compromettere irreversibilmente il rapporto professionale.
Il punto non è censurare, ma trovare un equilibrio. Non tutto ciò che si pensa va detto, e non tutto ciò che si dice va detto ovunque. A volte, è proprio nel modo in cui si parla che si decide il destino di un’intera carriera.