Cambiare lavoro e avere giorni di ferie arretrate è una situazione comune. La legge italiana è chiarissima e tutela pienamente il lavoratore: le ferie non si perdono mai. Esiste un meccanismo preciso e inderogabile che trasforma il diritto al riposo in un compenso economico che deve essere gestito correttamente nell’ultima busta paga.
Quando si decide di affrontare un nuovo percorso professionale tramite dimissioni volontarie o in seguito a un licenziamento, una delle domande più frequenti e importanti riguarda la sorte delle ferie non godute. Questi giorni, accumulati con fatica durante l’anno, rappresentano un diritto irrinunciabile del dipendente, un principio cardine del diritto del lavoro italiano. La normativa, a partire dalla Costituzione fino al Codice Civile, è stata pensata per garantire il fondamentale recupero psico-fisico del lavoratore, ma cosa succede quando il rapporto di lavoro si interrompe prima che questo recupero sia stato completato?

È bene chiarire subito che le ferie residue, così come i permessi non fruiti (ROL), non possono essere “trasferite” al nuovo datore di lavoro, né tantomeno possono essere semplicemente annullate. La legge prevede una sola soluzione, obbligatoria per l’azienda, che si traduce in un preciso calcolo da riportare nell’ultima busta paga, con importanti e specifiche implicazioni sia dal punto di vista fiscale che contributivo per il lavoratore.
Il diritto alle ferie e l’obbligo di monetizzazione
Il principio fondamentale che regola la materia è sancito dall’articolo 36 della Costituzione Italiana e rafforzato dall’articolo 2109 del Codice Civile: le ferie sono un diritto irrinunciabile. Questo termine tecnico significa che qualsiasi patto contrario, anche se firmato dal lavoratore, è nullo. Il dipendente non può rinunciare al proprio riposo in cambio di denaro mentre il rapporto è in corso. La loro finalità è tutelare la salute e la sicurezza del dipendente, un principio riconosciuto anche a livello europeo. Quando il rapporto di lavoro cessa, questo diritto al riposo, non potendo più essere esercitato, si trasforma obbligatoriamente in un diritto a un compenso economico.

La legge, infatti, vieta categoricamente il trasferimento dei giorni di ferie residui al nuovo impiego. L’unica via percorribile è la cosiddetta monetizzazione. Il datore di lavoro uscente è obbligato a liquidare un’indennità sostitutiva per ferie non godute. Questa somma deve corrispondere esattamente alla retribuzione che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato durante quei giorni, garantendo che nessun diritto economico vada perduto. Lo stesso identico principio si applica anche ai permessi retribuiti maturati e non goduti, come i ROL (Riduzione Orario di Lavoro).
Calcolo e trattamento fiscale dell’indennità
Il calcolo dell’indennità per le ferie non godute è un’operazione precisa che deve riflettere la piena retribuzione del lavoratore. Si basa sulla retribuzione lorda giornaliera, moltiplicata per il numero di giorni di ferie e permessi maturati e non fruiti. La base di calcolo, definita “retribuzione globale di fatto”, deve includere tutti gli elementi fissi e continuativi dello stipendio: non solo la paga base, ma anche l’indennità di contingenza, gli scatti di anzianità, eventuali superminimi e altre indennità specifiche legate alla mansione. Questo importo viene inserito nell’ultima busta paga, che viene solitamente corrisposta secondo le normali scadenze aziendali alla fine del periodo di preavviso.
È cruciale comprendere il trattamento fiscale di questa somma. A differenza del TFR, che gode di una tassazione separata perché considerato reddito differito, l’indennità per ferie è considerata retribuzione corrente. Per questo motivo, è soggetta sia ai contributi INPS, come un normale stipendio, sia alla tassazione IRPEF ordinaria. Ciò significa che l’importo concorre a formare il reddito complessivo di quell’anno, venendo tassato secondo gli scaglioni progressivi e potendo potenzialmente aumentare l’aliquota fiscale applicata.