C’è un dettaglio nascosto tra le pieghe delle nuove regole pensionistiche che rischia di far slittare di tre mesi l’accesso al trattamento. Non è una svista e non è una bufala. Un cambiamento silenzioso potrebbe colpire proprio chi pensava di avere tutto calcolato al mese, al giorno. Chi ha fatto affidamento su strumenti come l’Ape sociale si trova ora a porsi domande che nessuno aveva previsto. Le risposte? Meno ovvie del previsto. Le conseguenze? Potenzialmente fastidiose, ma diverse a seconda del percorso pensionistico scelto. Dentro questa storia si nasconde molto più di un semplice conteggio di mesi. E proprio qui nasce il vero dubbio: che fine fanno quei tre mesi?
A volte bastano novanta giorni a creare disagio. Chi ha programmato la propria uscita dal lavoro affidandosi a misure come l’Ape sociale, vive con il fiato sospeso. L’adeguamento previsto per il 2027 rischia di posticipare la pensione di vecchiaia da 67 anni a 67 anni e 3 mesi. Un piccolo slittamento anagrafico che, però, potrebbe trasformarsi in un grande problema per chi ha conti precisi e pianificazioni ferme su date già fissate.

Questa modifica non è ancora ufficiale, ma il calcolo dell’ISTAT sull’aspettativa di vita suggerisce che sarà inevitabile. Il governo ha dichiarato più volte la volontà di intervenire per evitare questo scatto, ma intanto cresce l’incertezza. In particolare, chi riceve l’Ape sociale si chiede se resterà coperto anche in quei tre mesi aggiuntivi o se rischia di ritrovarsi senza reddito.
Ape sociale: tre mesi che fanno la differenza
La misura dell’Ape sociale è pensata per accompagnare alcune categorie fragili fino alla pensione di vecchiaia. Tra i beneficiari ci sono disoccupati di lunga durata, caregiver, invalidi civili e chi svolge lavori gravosi. Questa indennità mensile, erogata dall’INPS fino al raggiungimento dell’età pensionabile, si interrompe esattamente nel mese in cui si compiono 67 anni, secondo le attuali regole.

Il problema nasce se, a partire dal 2027, la soglia si alza a 67 anni e 3 mesi. In assenza di interventi normativi, la misura verrebbe sospesa a 67 anni, mentre la pensione vera e propria partirebbe solo tre mesi dopo. Questo scenario aprirebbe un vuoto di copertura che colpirebbe duramente chi non ha altre fonti di reddito. Tuttavia, essendo l’Ape una prestazione pubblica, è plausibile pensare che l’INPS possa estenderla fino al nuovo requisito, evitando interruzioni.
Diversi esperti previdenziali ritengono che l’estensione dell’Ape sarebbe la soluzione più logica e coerente, ma finché non arriva una norma ufficiale il dubbio resta. La questione solleva inoltre riflessioni più ampie sull’equilibrio tra aspettativa di vita e sostenibilità del sistema pensionistico. In un contesto così mutevole, ogni aggiornamento genera effetti a catena.
Il vero rischio per i prepensionamenti aziendali
Molto più delicata è la posizione di chi aderisce a forme di prepensionamento aziendale, come l’Isopensione o il Contratto di espansione. In questi casi, l’assegno che accompagna il lavoratore fino alla pensione è finanziato dall’impresa. Gli accordi stabiliti fissano il termine del sostegno economico al compimento dei 67 anni. Ma se nel 2027 si richiederanno 67 anni e 3 mesi, quei tre mesi rischiano di restare scoperti.
L’azienda, in teoria, dovrebbe accollarsi anche quel trimestre aggiuntivo, ma non sempre ha la possibilità economica per farlo. In assenza di copertura, il dipendente potrebbe trovarsi improvvisamente senza reddito, in una sorta di limbo pensionistico. Uno scenario che ricorda il dramma vissuto dagli esodati nel passato, quando i cambiamenti normativi tagliarono fuori chi era già in transizione verso la pensione.
La differenza principale, rispetto all’Ape sociale, è che nei prepensionamenti aziendali non c’è un automatismo di adeguamento: serve una modifica contrattuale o legislativa. Per ora il governo ha lasciato intendere che potrebbe intervenire per evitare nuovi casi critici, ma nulla è stato ancora formalizzato.