Una vicenda giudiziaria, partita da un condominio umbro, riaccende il dibattito sui poteri dell’amministratore. Il caso riguarda un condomino moroso da oltre sei mesi e la sospensione di acqua calda e riscaldamento. Il Tribunale di Perugia interviene con una decisione che potrebbe fare scuola, toccando un equilibrio delicato tra diritti individuali e tutela della collettività. In gioco non ci sono soltanto cifre e regolamenti, ma anche la gestione concreta della convivenza condominiale e la tenuta dei rapporti di vicinato.
Nell’Italia delle grandi città e dei piccoli centri, il condominio è spesso un microcosmo di storie, tensioni e regole condivise. In questo scenario, la morosità condominiale non è solo una voce di bilancio in rosso: può diventare il punto di rottura di un equilibrio già fragile. Quando una quota resta inevasa per mesi, il problema non riguarda soltanto chi non paga, ma anche chi rischia di subire le conseguenze indirette di servizi non più garantiti.

Un’ordinanza recente (n. 1036 del Tribunale di Perugia), firmata dal Tribunale di Perugia, porta alla ribalta una questione spesso discussa solo nei corridoi dei palazzi o nelle aule di assemblea: fino a che punto un amministratore può intervenire contro chi non è in regola con le spese comuni? E, soprattutto, quali strumenti concreti la legge gli mette in mano?
La storia che ha acceso la miccia parte da una cifra importante: circa diecimila euro di arretrati, relativi a utenze condominiali, riscaldamento centralizzato e manutenzione. L’amministratore, dopo mesi di solleciti caduti nel vuoto, ha deciso di chiedere l’autorizzazione a interrompere la fornitura di acqua calda e riscaldamento all’unità immobiliare interessata. La risposta della magistratura ha segnato un passaggio chiave.
Sei mesi di morosità e la legge: cosa può fare l’amministratore
L’articolo 63 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile non lascia spazio a interpretazioni eccessivamente elastiche: superata la soglia di sei mesi di mancati pagamenti, l’amministratore ha il diritto di sospendere i servizi comuni separabili dal resto dell’edificio. Non si parla quindi di ascensore o illuminazione delle scale, ma di forniture che possono essere tecnicamente distaccate senza pregiudicare gli altri condomini.

La particolarità sta nel distinguere due scenari: quando il distacco può avvenire senza entrare nella proprietà privata, l’amministratore può procedere direttamente, assumendosi la responsabilità della legittimità dell’atto. Se invece è necessario accedere all’interno dell’appartamento, come accaduto nel caso di Perugia, è obbligatorio rivolgersi al giudice.
La magistratura, in queste circostanze, valuta due elementi fondamentali: il fumus boni iuris, ossia la fondatezza del diritto rivendicato, e il periculum in mora, il rischio concreto di un danno economico ulteriore in caso di ritardo. Solo con questi presupposti scatta l’autorizzazione a intervenire fisicamente.
Si tratta di una misura che, seppur legale, richiede cautela. Il distacco di un servizio come l’acqua calda non è solo un atto tecnico: tocca la vita quotidiana di una persona e può innescare tensioni profonde nel tessuto sociale del condominio.
Il caso Perugia: un precedente che fa discutere
Nel luglio scorso, il Tribunale di Perugia ha accolto il ricorso d’urgenza presentato dall’amministratore, autorizzando i tecnici a entrare nell’abitazione per interrompere il servizio. La decisione si fonda su una morosità accertata e protratta oltre i sei mesi, accompagnata da un debito significativo e dall’urgenza di evitare spese ulteriori a carico degli altri condomini.
Il provvedimento non si limita a risolvere una vertenza locale, ma chiarisce un punto spesso oggetto di incertezza: il potere dell’amministratore è reale e può essere esercitato, ma entro limiti ben definiti dalla legge. Se l’intervento si svolge all’esterno, nessun passaggio assembleare o giudiziario è richiesto. Se si varca la soglia di un’abitazione privata, la decisione deve passare per un’aula di tribunale.