Un messaggio vocale detto di fretta può cambiare un’intera carriera? In un’epoca in cui tutto è tracciabile, anche una frase tra colleghi può diventare un boomerang. Ma se quella conversazione avviene in una chat chiusa, è ancora giusto che venga usata per punire chi l’ha pronunciata? Una recente decisione della Corte di Cassazione ha sollevato un tema che tocca la libertà, la privacy e il mondo del lavoro in modo diretto. Le conseguenze potrebbero riguardare chiunque abbia mai scritto qualcosa in un gruppo privato credendo che restasse lì. Un confine sottile separa la confidenza dalla sanzione, e stavolta qualcosa è cambiato.
Nel mondo del lavoro, le tensioni sono inevitabili. A volte, sfoghi o battute circolano tra colleghi all’interno di chat private. In questi spazi, che non hanno nulla di pubblico, le persone si lasciano andare a commenti che non pronuncerebbero mai a voce alta davanti a tutti. Eppure, è successo: un lavoratore è stato licenziato dopo che i suoi messaggi vocali, pieni di insulti verso un superiore, sono finiti nelle mani dell’azienda.

Quei messaggi erano stati inviati nel gruppo WhatsApp “Amici di lavoro”, composto solo da colleghi. Una chat chiusa, informale. Ma per l’azienda, tanto è bastato. Il caso è finito in Cassazione, dove si è aperta una riflessione su cosa sia davvero privato in un contesto digitale.
La Cassazione: la segretezza delle comunicazioni viene prima del licenziamento
Con la sentenza n. 5936 del 6 marzo 2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che le espressioni offensive in una chat chiusa non costituiscono giusta causa di licenziamento. Il punto chiave? La tutela costituzionale della segretezza delle comunicazioni, prevista dall’articolo 15 della Costituzione. Secondo i giudici, i messaggi su WhatsApp inviati a un gruppo ristretto non possono essere considerati alla stregua di affermazioni pubbliche. Di conseguenza, non possono giustificare sanzioni disciplinari drastiche.

L’azienda si era appellata anche all’art. 2087 c.c., sostenendo il dovere di tutelare i lavoratori da offese o comportamenti molesti. Ma la Corte ha ribadito che, quando si è davanti a una conversazione privata, anche se dai toni forti, il licenziamento è una misura sproporzionata. Il fatto che un collega abbia condiviso il contenuto con i superiori non trasforma la comunicazione in qualcosa di pubblico. Anzi, rappresenta una violazione della privacy del mittente, che non aveva dato il consenso alla diffusione di quelle parole.
Privacy e proporzionalità: limiti al potere del datore di lavoro
L’elemento centrale resta il contesto. La chat privata tra colleghi non può essere equiparata a una bacheca online visibile a tutti. Non è Facebook, non è un post aperto al mondo. È uno scambio ristretto, che la legge considera parte della corrispondenza privata. La Cassazione lo ha ribadito con fermezza: il diritto alla riservatezza non viene meno solo perché il contenuto può risultare sgradito.
Questo non significa che tutto sia lecito, ma impone una riflessione sul potere del datore di lavoro di intervenire su ciò che accade al di fuori dei canali ufficiali. Anche in tempi di comunicazione veloce, ciò che si dice in uno spazio riservato merita protezione. Il rischio, altrimenti, è che si arrivi a un controllo eccessivo della vita privata, dove ogni parola può essere usata come arma.