Un cambiamento di salute può rivoluzionare la vita, ma cosa succede quando impatta anche sul lavoro? In caso di disabilità sopravvenuta, si entra in un terreno delicato fatto di diritti, obblighi e responsabilità. Non basta una semplice valutazione aziendale per decidere il futuro lavorativo di una persona: le regole parlano chiaro.
Cosa prevede davvero la legge per proteggere chi, dopo anni di attività, si ritrova improvvisamente in una condizione di fragilità? E dove si ferma il dovere del datore di lavoro di trovare soluzioni alternative? La risposta, spesso, è meno ovvia di quanto si pensi.

Chi lavora da anni in azienda raramente immagina di ritrovarsi, da un giorno all’altro, a non poter più svolgere la propria mansione. Quando questo succede per via di una disabilità sopravvenuta, la situazione si complica. Non solo per l’aspetto personale, ma anche per quello giuridico e organizzativo.
Il rapporto tra lavoratore e datore cambia: da una parte c’è il diritto a mantenere il posto, dall’altra le esigenze aziendali. La legge impone però dei vincoli ben precisi: il licenziamento non può essere la prima opzione. Serve un percorso fatto di verifiche, accertamenti e, soprattutto, rispetto della dignità della persona.
Obbligo di ricollocamento: un passaggio imprescindibile
Il primo punto fermo è che il datore di lavoro ha l’obbligo di verificare se il lavoratore disabile può essere ricollocato in un’altra mansione. Questo dovere, noto come repêchage, impone all’azienda di individuare un’attività compatibile con le nuove condizioni di salute, anche se si tratta di una posizione di livello inferiore. L’obiettivo è evitare il licenziamento, sempre che esista un’alternativa concreta.

Ci sono però due limiti importanti. Il primo riguarda le competenze: il lavoratore deve già possedere le abilità necessarie per la nuova mansione. Il secondo limite riguarda l’organizzazione aziendale: non si può pretendere che venga rivoluzionata per trovare un nuovo ruolo al dipendente. Il datore è chiamato a mettere in atto solo quegli adattamenti che risultino ragionevoli e sostenibili.
Se non esistono ruoli compatibili, allora, e solo allora, si può parlare di licenziamento. Ma non è una decisione che il datore può prendere in autonomia. Serve il parere di una commissione medica.
Quando la commissione medica è determinante
Secondo l’articolo 10 della Legge 68/1999, la risoluzione del contratto può avvenire solo dopo l’intervento della commissione medica integrata, che deve accertare l’impossibilità di reinserire il lavoratore, anche con gli adattamenti previsti dalla normativa. Questo vale sia per le disabilità legate all’assunzione che per quelle sopraggiunte.
Nei casi di inidoneità temporanea, il lavoratore non può essere licenziato. Il datore deve invece valutare soluzioni provvisorie, come l’assegnazione a mansioni alternative o, in assenza di opzioni, la sospensione temporanea. La retribuzione non è garantita, ma il posto resta.
Il licenziamento diventa legittimo solo quando la commissione certifica un’inidoneità permanente e non esistono possibilità di ricollocamento. La Cassazione (sezione lavoro, ordinanza n. 18094 depositata il 2 luglio 2024) ha chiarito che il datore non può decidere da solo: una valutazione personale non basta. Serve un giudizio tecnico, terzo e documentato.