Una patologia causata dal lavoro… ma niente risarcimento: la Cassazione riscrive le regole

Può una malattia causata dal lavoro non portare a nessun risarcimento? Una recente ordinanza della Cassazione cambia le regole. Non basta ammalarsi per ottenere un indennizzo: la responsabilità del datore non è automatica. Cosa serve davvero per dimostrarla?

Un caso concreto accende il dibattito sul rapporto tra tutela della salute e obblighi aziendali. La parola chiave è una sola: malattia professionale.

Medico con provette di sangue
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Quando il corpo comincia a cedere lentamente, spesso si pensa allo stress, all’età, alla stanchezza. Ma per molti, il malessere ha un’origine più profonda: anni di lavoro in ambienti difficili, posture forzate, esposizione a rumori o sostanze dannose. E quando la diagnosi arriva, ci si scontra con una realtà molto più dura della patologia stessa: dimostrare che si tratta di una malattia professionale.

Il percorso è lungo e pieno di ostacoli. Anche quando tutto sembra evidente, le leggi non sempre danno ragione a chi soffre. La recente ordinanza n. 4166/2025 della Corte di Cassazione ha chiarito che non basta contrarre una malattia riconducibile al lavoro per ottenere un risarcimento. Il cuore della questione sta nella responsabilità del datore di lavoro, che non può essere considerata “automatica”. Chi vuole far valere i propri diritti deve dimostrare che il datore ha omesso di adottare misure di prevenzione che la scienza già suggeriva all’epoca dei fatti.

Quando il rischio era noto e quando no: il giudice valuta tutto

Nel caso analizzato, una lavoratrice comunale aveva chiesto un risarcimento per una patologia lombare, sostenendo che fosse stata causata da anni passati a sollevare bambini in un asilo nido. Ma la Corte ha fatto una distinzione netta: prima del 2007, non vi erano ancora studi consolidati che collegassero quel tipo di mansioni a disturbi alla colonna vertebrale. Dunque, non si poteva attribuire alcuna colpa al datore per non aver previsto il rischio.

Giudice
Quando il rischio era noto e quando no: il giudice valuta tutto-crypto.it

Dal 2007 in poi, però, la situazione era cambiata. Il datore aveva iniziato a introdurre misure correttive: arredi ergonomici, sorveglianza sanitaria specifica, formazione mirata. Questi elementi sono stati considerati segno di attenzione alla salute dei lavoratori. E qui si comprende quanto la malattia professionale debba essere dimostrata non solo nella sua esistenza, ma anche nel legame diretto con un’omissione aziendale specifica.

Ciò che emerge da questa pronuncia è un nuovo equilibrio: la responsabilità del datore di lavoro viene riconosciuta solo se viene dimostrato che non ha fatto tutto il possibile per prevenire. Ma quel “possibile” è legato al momento storico, alle conoscenze disponibili e ai mezzi concretamente attuabili. Non si può giudicare con gli occhi di oggi ciò che era incerto anni fa.

Questa decisione impone una riflessione profonda. Quanto sono consapevoli le aziende dei rischi nascosti nelle attività quotidiane? E quanto è davvero accessibile, per chi lavora, il percorso per far valere i propri diritti in caso di malattia professionale?

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