Alcuni pensionati si sono visti recapitare richieste dall’INPS per restituire somme percepite in eccesso. L’errore nasce da un ricalcolo dei contributi, ma non tutti sono obbligati a restituire: il limite dei tre anni e la buona fede possono fare la differenza.
Negli ultimi mesi l’INPS ha iniziato a correggere alcuni importi delle pensioni in pagamento. La causa è un’operazione di sanatoria contributiva attuata da numerosi enti pubblici, che hanno comunicato aggiornamenti tardivi sulle posizioni assicurative dei lavoratori. Quando le nuove informazioni vengono trasmesse dopo che la pensione è già stata liquidata, l’INPS può ricalcolare l’assegno, con due possibili esiti: il pensionato può aver diritto a arretrati, oppure può trovarsi a dover restituire una parte delle somme già percepite.
Secondo PensioniOggi, l’INPS ha titolo per intervenire solo se l’errore è stato rilevato entro 36 mesi dalla data di decorrenza della pensione. Questo limite, previsto dalla normativa vigente, vale sia in caso di somme indebitamente erogate, sia in caso di importi non riconosciuti. Anche InvestireOggi e lo Studio Legale Kosa confermano che, superato questo termine, l’ente previdenziale non può più agire né in un senso né nell’altro.
Ma anche quando l’errore è scoperto entro i tre anni, non sempre la restituzione è dovuta. La normativa e la giurisprudenza richiamano infatti il principio di buona fede: se il pensionato non era consapevole dell’irregolarità e ha percepito gli importi in modo legittimo, l’INPS non può pretenderne il rimborso.
L’INPS può procedere con un ricalcolo della pensione entro tre anni dalla sua decorrenza, come previsto dalla Legge 88/1986 e dalla Legge 412/1991. Questo accade quando, ad esempio, un’amministrazione comunica contributi mancanti o errati dopo il pensionamento del dipendente.
Nel caso in cui il nuovo calcolo determini un assegno inferiore, il pensionato riceve una comunicazione con la richiesta di restituire la differenza. Tuttavia, la Corte di Cassazione – con la sentenza n. 482/2017 – ha chiarito che l’INPS può chiedere la restituzione solo se dimostra che il pensionato era consapevole dell’errore o lo ha causato con dolo.
Diversamente, se il pensionato ha agito in buona fede, le somme restano acquisite. La stessa regola vale al contrario: se dal ricalcolo emerge un credito a favore del pensionato, questo può essere riconosciuto solo entro i tre anni.
Quando si riceve una richiesta di restituzione, è fondamentale controllare subito la propria posizione contributiva. Il primo passo è consultare il proprio fascicolo previdenziale online o tramite patronato, per verificare le variazioni intervenute e le motivazioni del ricalcolo.
Se la pensione è in pagamento da oltre tre anni, il pensionato ha una base solida per contestare la richiesta. In tutti gli altri casi, la buona fede può essere invocata per bloccare la restituzione, purché supportata da documenti e comunicazioni coerenti.
In questi casi è utile agire con tempestività, presentare una memoria difensiva e richiedere l’accesso agli atti. Anche il supporto di un consulente legale o di un sindacato può rivelarsi determinante.
La sanatoria contributiva, pur pensata per regolarizzare situazioni passate, ha effetti concreti sulla misura degli assegni. Sapere come difendersi, conoscere i propri diritti e documentare ogni fase è essenziale per proteggere il proprio assegno pensionistico da eventuali richieste indebite.
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