Il mercato del petrolio resta sotto pressione tra l’aumento dell’offerta e le nuove dinamiche geopolitiche. Eppure, nonostante un frazionale calo nelle ultime ore, i prezzi sembrano avviati verso la seconda settimana consecutiva di rialzi. Gli investitori scrutano con attenzione i segnali che arrivano da Washington, Teheran e Pechino: l’intesa sul nucleare iraniano e l’allentamento delle tensioni USA-Cina potrebbero cambiare gli equilibri sul breve periodo.
Venerdì mattina i futures sul Brent si attestavano a 64,50 $ al barile, mentre il WTI statunitense scendeva a 61,59 $ al barile, entrambi in lieve calo dello 0,05%. Il mercato ha reagito al forte sell-off di giovedì, innescato dalle dichiarazioni del presidente USA Donald Trump: secondo la Casa Bianca, l’Iran avrebbe “più o meno” accettato i termini per un nuovo accordo nucleare, riaprendo così la possibilità di eliminazione delle sanzioni. Una mossa che, secondo ING, potrebbe tradursi in un ritorno immediato sul mercato di circa 400.000 barili al giorno da parte di Teheran, con effetti diretti sull’offerta globale.
Contemporaneamente, anche l’OPEC+ ha aumentato la produzione nel mese di aprile, secondo quanto riportato da Reuters, con un incremento stimato di 145.000 barili giornalieri. Un surplus che inizia a preoccupare i mercati, anche se non abbastanza da rovesciare il trend settimanale positivo, sostenuto dall’allentamento delle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, che ha migliorato le prospettive sulla domanda.
A dare respiro ai prezzi è stato anche il calo delle scorte statunitensi. Secondo l’EIA (Energy Information Administration), i depositi di petrolio greggio negli Stati Uniti sono scesi di 2,5 milioni di barili nella settimana più recente, un dato letto dagli operatori come segnale di buona tenuta della domanda interna. Un elemento che ha contribuito a mantenere il sentiment positivo, anche in un contesto complesso.
Al tempo stesso, gli occhi sono puntati sulla Federal Reserve: i mercati scommettono su un mantenimento dei tassi invariati, un elemento che potrebbe sostenere i prezzi delle materie prime energetiche nel breve periodo. Un atteggiamento più morbido della Fed renderebbe meno costoso il finanziamento di nuove scorte e infrastrutture, dando fiato alla domanda complessiva.
L’elemento chiave resta però l’Iran. I colloqui sull’accordo nucleare non sono ancora conclusi. Secondo fonti diplomatiche vicine ai negoziati, permangono ancora alcuni nodi irrisolti. Ma la sola possibilità di un’intesa ha già innescato un riprezzamento degli scenari futuri.
Sul fronte delle previsioni, gli analisti si muovono con cautela. Secondo Goldman Sachs, il prezzo medio del Brent nel 2025 dovrebbe attestarsi intorno ai 62 $, con un calo a 58 $ nel 2026, a causa di una crescita più debole e maggiore produzione OPEC. Più ottimista BMI Research, che stima il Brent a 68 $ nel 2025, leggermente in calo a 71 $ nel 2026.
Anche J.P. Morgan resta su posizioni caute, con una previsione a 66 $ per il prossimo anno e 58 $ per il 2026, in linea con quanto indicato dall’EIA, che prevede un prezzo medio di 67,87 $ nel 2025 e 61,48 $ nel 2026. Gli analisti dell’OPEC, infine, non hanno modificato le stime sulla domanda globale, mantenendole ferme a 1,3 milioni di barili al giorno sia per il 2025 sia per il 2026.
Il consensus resta quindi su una traiettoria stabile ma prudente, con scarti contenuti e forte attenzione ai rischi geopolitici. L’aggiunta potenziale dell’offerta iraniana e l’attivismo dell’OPEC+ restano i due principali fattori da monitorare per i prossimi mesi. Per chi investe in petrolio, sarà cruciale saper distinguere le correzioni tattiche dai veri cambi di trend.
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