Hai mai pensato che per arrivare alla pensione potresti doverci mettere di tasca tua? C’è chi può farlo davvero: un’opzione prevista dall’INPS che consente di continuare a versare i contributi anche dopo aver smesso di lavorare.
Ma quanto costa? E soprattutto: conviene? Quella che sembra una scorciatoia verso la pensione, può trasformarsi in un salasso. Ecco cosa è successo a Gennaro e Michela, due persone comuni alle prese con una scelta non semplice e tutt’altro che scontata.
Certe decisioni non si prendono a cuor leggero. Quando Gennaro ha chiuso la sua ferramenta, pensava solo a tirare avanti qualche mese. Michela invece, impiegata pubblica, aveva interrotto il lavoro da poco, ma sapeva che la strada verso la pensione era ancora lunga. Nessuno dei due pensava che sarebbe arrivato a pagare per avvicinarsi alla pensione, eppure la questione dei contributi volontari si è fatta strada nei loro pensieri, tra dubbi e numeri.
È stato il consulente del patronato a spiegare a Gennaro che esisteva la possibilità di continuare a versare i contributi, anche se non lavorava più. “Paghi tu, ma ti contano”, gli disse. Michela invece ne aveva sentito parlare da una collega, ma aveva sempre pensato fosse una roba da ricchi. Finché, con qualche simulazione alla mano, ha capito che forse non era così folle come sembrava. O forse sì. Anche amici e familiari hanno iniziato a dire la loro, aumentando la confusione. Quando in ballo c’è il futuro, i consigli si moltiplicano, ma la scelta resta tutta personale.
La prosecuzione volontaria dei contributi è una misura che permette di continuare a costruire il proprio futuro previdenziale, anche quando il lavoro si è interrotto. Ma non è per tutti. Prima serve un’autorizzazione da parte dell’INPS. Poi, bisogna avere alle spalle almeno 5 anni di contributi, oppure 3 anni nei 5 anni precedenti alla domanda. Ma il requisito più difficile da digerire è il costo.
Gennaro, con un passato da artigiano e un reddito medio, ha scoperto che per un anno di contributi dovrebbe versare circa 12.550 euro. Michela, autorizzata prima del 1995, avrebbe “solo” un’aliquota del 27,87%, ma comunque il conto supera i 3.400 euro annui. Una spesa enorme, soprattutto se nel frattempo non si ha un’entrata fissa.
L’INPS ha stabilito aliquote diverse a seconda del tipo di lavoratore e del momento in cui è stata ottenuta l’autorizzazione. Per i dipendenti non agricoli, il contributo minimo annuo si aggira attorno ai 4.140 euro. Per i lavoratori autonomi, si calcola sul reddito medio degli ultimi 36 mesi, con percentuali che vanno dal 24% al 24,48%.
Per Gennaro, versare almeno un anno è stato un modo per non perdere quanto già costruito. Michela, più titubante, sta valutando alternative come il riscatto della laurea. In entrambi i casi, è emerso un punto fermo: bisogna farsi bene i conti e capire se, in base alla propria situazione, questa strada ha davvero senso. E forse, più che chiedersi “quanto costa?”, dovremmo iniziare a chiederci: “quanto vale davvero il nostro futuro?”.
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